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La Jihad e le guerre dimenticate


JackSEWing

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Tutt'al più possono essere stati delineati degli scenari estremi, ma il compito di tali scenari non è quello di esprimere le opinioni dello scrivente sulla questione, ma quello di dare un'idea di cosa potrebbe succedere nella peggiore delle ipotesi possibili.

Detto ciò, mi pare che l'evoluzione della discussione abbia preso una piega "smitizzante" sulla pericolosità ed antidemocraticità di certe nazioni islamiche, enfatizzando al contempo quanto altre nazioni (apparentemente più aperte) celino una realtà molto meno idilliaca di quello che i loro amichevoli governanti vorrebbero far vedere.

Modificato da EC2277
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-continuiamo a parlare come se guerre e morti fossero causati dalle differenti fedi religiose

le religioni sono (in parte) causa di guerre, e spesso sono esclusivamente causa di morti, mi riferisco a guerre e omicidi che accadono ora, non a cose del passato.

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In realtà la dottrina israeliana prevede l'arma nucleare come arma di estrema istanza , da usare solo in caso di sfondamento dei fronti come arma tattica ( nella guerra dello Yom Kippur si arrivò ad un pelo dall'uso sul Golan, tanto che si favoleggia degli A-4 con bombe nucleari fermati mentre già rullavano in pista ) , non come arma strategica, perchè vaporizzare per esempio Teheran avrebbe l'unico effetto di compattare il mondo arabo contro israele , compreso quel paese Arabo che ha già armi nucleari, testate e missili per il recapito su Tel Aviv :)

Quindi una atomica iraniana non è necessaria in questo senso , ma semmai come deterrente verso Washington, ma anche verso Mosca ( le cui mire verso il Golfo Persico sono millenarie ) :)

e tuttavia al giorno d'oggi lo stato ebraico dispone di velivoli d'attacco a lungo raggio in grado di colpire Teheran.

e questo non può essere ignorato dall'Iran, che di fatto è una potenza regionale con i suoi interessi da difendere

un pò di pepe al culo agli israeliani non guasta... spesso hanno la fastidiosa tendenza a farsi trasportare dell'onda della loro superiorità militare

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e tuttavia al giorno d'oggi lo stato ebraico dispone di velivoli d'attacco a lungo raggio in grado di colpire Teheran.

e questo non può essere ignorato dall'Iran, che di fatto è una potenza regionale con i suoi interessi da difendere

un pò di pepe al culo agli israeliani non guasta... spesso hanno la fastidiosa tendenza a farsi trasportare dell'onda della loro superiorità militare

Io son convinto che l'ultima guerra in Libano contro Hezbollah abbia contribuito ad abbassare parecchio la cresta israeliana.

Anche se a volte mi sembra che non sia stato abbastanza.

Statisticamente, il 98% dei ragazzi nel mondo ha provato a fumare qualsiasi cosa. Se sei fra il 2%, copia e incolla questa frase nella tua firma

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le religioni sono (in parte) causa di guerre, e spesso sono esclusivamente causa di morti, mi riferisco a guerre e omicidi che accadono ora, non a cose del passato.

Come giustamente fai notare, è assodato oltre ogni ragionevole dubbio che molte milizie islamiche agiscano spinte proprio dalla religione. Pertanto suggerisco di lasciar cadere la questione, poiché probabilmente degenererebbe in una rissa ideologico-culturale. Quando questa discussione è nata con il semplice scopo di raggruppare le informazioni su quanto sta accadendo nella sponda meridionale del Mediterraneo, individuare gli attori di tali vicende, il loro peso, come interagiscono tra di loro e tracciare possibili scenari futuri.

;)

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e tuttavia al giorno d'oggi lo stato ebraico dispone di velivoli d'attacco a lungo raggio in grado di colpire Teheran.

e questo non può essere ignorato dall'Iran, che di fatto è una potenza regionale con i suoi interessi da difendere

un pò di pepe al culo agli israeliani non guasta... spesso hanno la fastidiosa tendenza a farsi trasportare dell'onda della loro superiorità militare

Nessun dubbio che ne abbia la capacita' militare. E che non ne ha la necessita' politica. Vaporizzare Teheran sarebbe come vaporizzare Islamabad, con le stesse conseguenze.

Al limite sarebbe una strategia da "muoia Sansone con tutti i Filistei", da usare solo avendo le divisione corazzate arabe davanti a Tel Aviv ( evento molto improbabile , anche dopo la mezza sconfitta dellúltima guerra in libano )

Archepensevoli spanciasentire Socing.

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  • 7 mesi fa...
Guest EC2277

Riporto un paio d'interviste sulla questione libica, rilasciate al sito Formiche.net da due esponenti del Partito Democratico.

Perché solo l’Italia può salvare la Libia

22 - 05 - 2014Michele Pierri

Perché solo l'Italia può salvare la Libia Conversazione di Formiche.net con Lia Quartapelle (Pd), componente della commissione Affari Esteri della Camera e ricercatrice presso l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi)

La Libia è sempre più nel caos. Da un lato c’è l’ex generale dell’esercito Khalifa Haftar, che in un messaggio trasmesso su Al Arabiya ha dichiarato guerra ai militanti islamici e ha detto che vuole debellare “il terrorismo” in Libia.

Dall’altro l’esecutivo in carica accusa Haftar di stare tentando un colpo di stato, sostenendo perciò che dovrebbe essere arrestato.Il Paese attende ora lo svolgimento per le elezioni per il rinnovo del parlamento, che la commissione elettorale libica ha fissato il 25 giugno. Il governo libico dal 2011 – anno dell’uccisione dell’ex presidente Muammar Gheddafi – stenta a imporre il proprio controllo su tutto il territorio nazionale.Elezioni forse non sufficienti a riportare la stabilità nella nazione, ma necessarie secondo Lia Quartapelle (Pd), componente della commissione Affari Esteri della Camera e ricercatrice presso l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi), che in una conversazione con Formiche.net spiega come la comunità internazionale può aiutare a tirare fuori la Libia dallo stallo democratico in cui si trova.Onorevole, che cosa fa e cos’altro dovrebbe fare l’Italia per risolvere la crisi libica?

Il nostro Paese deve continuare a battersi per una soluzione di carattere politico. La situazione sul terreno sta peggiorando. La nomina come inviato speciale dell’Italia per la Libia di Giuseppe Buccino, ambasciatore a Tripoli, è un segnale della grande attenzione che Roma rivolge alla crisi libica. La presenza di un diplomatico che ha già rapporti consolidati con il territorio consentirà un più efficace coordinamento con tutti gli interlocutori.

L’Italia deve poi continuare e se possibile intensificare l’addestramento delle Forze Armate di Tripoli, ancora insufficienti per garantire la sicurezza interna.Che tipo di intervento immagina per pacificare il Paese?

Come hanno già detto il premier Matteo Renzi e il ministro degli Esteri Mogherini è importante che le Nazioni Unite prendano in mano la situazione. Al momento in Libia si stima la presenza di 12mila milizie che si fanno la guerra tra loro e remano contro l’instaurazione di un processo democratico. Il Paese va ricostruito dalle fondamenta, a partire dalle sue istituzioni, praticamente inesistenti sotto Gheddafi.

Che ruolo deve avere invece l’Unione europea?

Nella crisi libica c’è anche una grande responsabilità di Francia e Regno Unito, che decisero di entrare nel Paese senza avere una soluzione per il dopo intervento, dimostrando di non aver appreso le lezioni di Iraq e Afghanistan. L’Unione europea deve recuperare terreno evitando appunto gli errori fatti con l’intervento armato, riflettendo sul fatto che non ci sono buoni e cattivi, ma che le vicende in quella porzione di mondo che è il Mediterraneo – e la Libia non fa eccezione – sono complesse e come tali vanno affrontate.

Quale invece il compito degli Usa?

Washington deve cercare di far lavorare insieme tutti gli attori regione. È vero, gli Stati Uniti sostengono rapporti molto diversi con i Paesi dell’area – dall’Iran all’Arabia Saudita -, ma hanno la responsabilità di essere garanti di un dialogo.

C’è disaccordo a livello internazionale sul futuro della Libia?

Non vorrei che si dimenticasse quanto accaduto in Somalia negli ultimi dieci anni, Dove da un lato c’era chi, come l’Italia, premeva per una soluzione politica. in Somalia questo significava rompere il fronte islamista, dividendolo tra quello moderato e quello radicale e terrorista; dall’altro chi aveva un approccio più securitario e muscolare. Le conseguenze delle divergenze internazionali sulla Somalia sono ben note: finché si è parlato solo di sicurezza e terrorismo e non c’è stata la volontà di trovare una via d’uscita anche politica, la Somalia non ha avuto soluzione. Oggi in Libia, come in Somalia qualche anno fa, al nostro Paese è stato affidato dal G8 il ruolo di mediatore, che non può limitarsi all’organizzazione di conferenze.se a livello internazionale si sceglie di avere un mediatore significa che le proposte dell’Italia devono essere ascoltate e seguite. La Libia non va divisa, ma va aiutata a rialzarsi.

In questo quadro il generale Haftar può essere considerato un interlocutore utile per l’Occidente?

Credo che questa sia una fase da affrontare con estrema cautela, nella quale sarebbe preferibile non prendere le parti di nessuno. Chiunque si affaccia sullo scenario libico, anche con una relativa predominanza di forze, rappresenta solo uno spicchio delle istanze e delle sensibilità di cui tener conto per costruire una nazione in cui tutti si sentano a casa.

La caduta di Gheddafi ha prodotto per l’Italia più effetti negativi o positivi? E chi sta pagando il prezzo più alto per l’improvvisa instabilità del Paese?

Chi sta pagando di più in questo momento è il popolo libico, che vive nell’incertezza e con prospettive complicate. Detto ciò, la caduta di Gheddafi più che avere conseguenze negative consegna al nostro Paese una forte responsabilità sul futuro della Libia. Ci sono anche interessi economici che ci riguardano, ma questi vanno inscritti nella nostra capacità di trovare una soluzione al dramma che vivono i cittadini del Paese nordafricano e all’instabilità che minaccia la regione.

Perché solo l'Italia può salvare la Libia - Formiche

Il Pd chiede l’intervento dell’Onu in Libia

20 - 05 - 2014Michele Pierri

Il Pd chiede l'intervento dell'Onu in Libia Conversazione di Formiche.net con Andrea Manciulli (Pd), vicepresidente della commissione Esteri della Camera e presidente della delegazione presso l’assemblea della Nato.

La crisi libica preoccupa il governo Renzi, che chiede un maggiore protagonismo dell’Europa e delle Nazioni Unite per evitare che il collasso del Paese – con i suoi riflessi su un aumento dei rischi energetico, terroristico e migratorio -, si ripercuota sull’Italia e sul resto del Vecchio Continente.Scenari e prospettive in una conversazione di Formiche.net con Andrea Manciulli (Pd), vicepresidente della commissione Esteri della Camera e presidente della delegazione presso l’assemblea della Nato.

Onorevole, come commenta quanto accade in Libia?

L’esecutivo è molto preoccupato, il deserto libico è ormai fuori controllo, ed è dominio incontrastato di bande armate, che hanno più di qualche correlazione con il traffico degli essere umani e gli sbarchi sulle nostre coste.

Che cosa dovrebbe fare la comunità internazionale per la Libia?

Condivido quanto detto dal presidente del Consiglio Matteo Renzi e dal ministro degli Esteri Federica Mogherini. È necessario un impegno della Nazioni Unite e maggiore sensibilità da parte dell’Europa e premeremo in tutte le sedi internazionali perché ciò avvenga. La Libia deve diventare una priorità assoluta per il Vecchio Continente. A mio parere è arrivato il momento che anche Bruxelles e i singoli Paesi ancora reticenti inizino a preoccuparsi delle sorti del Mediterraneo.

Immagina un ruolo attivo dell’Alleanza Atlantica?

Cogliamo la disponibilità della Nato che con il suo segretario generale Rasmussen ha garantito l’impegno a migliorare la sicurezza nel Paese, ma penso che in questa fase a recitare un ruolo maggiore debbano essere le Nazioni Unite.

In che modo l’Onu potrebbe aiutare a pacificare il Paese?

Sicuramente non immagino per la Libia un intervento di enforcing (che non è adatto al Paese), né la perdita di altro tempo con la demagogia. Sarebbe piuttosto il caso di mandare un inviato che si occupi del tema della pacificazione, lavorando seriamente per favorire il dialogo tra le varie anime che compongono la nazione. Lo scopo è quello di rafforzare lo Stato libico, ora talmente debole da essere quasi inesistente.

Il generale Khalifa Haftar può essere considerato un interlocutore fondamentale e utile per l’Occidente?

Questo non sono in grado di dirlo. Ma è importante che ci sia un solo interlocutore per tutti.

Uno dei problemi dell’attuale instabilità della Libia è, in qualche modo, la proliferazione di voci.Quale il ruolo dell’Italia?

Il nostro Paese deve rafforzare il suo impegno per costituire quel ponte culturale ed economico tra il Sud dell’Europa e la Libia. Lo sta già facendo addestrando le forze militari del Paese. Auspico che questi sforzi si moltiplichino, in questo come in altri frangenti.

Quali i rischi maggiori di un perdurare della crisi?

Ad alcuni ho già accennato: aumento di flussi migratori incontrollati e del rischio di attentati terroristici. Fenomeni spesso collegati tra loro visto che i proventi del primo finanziano i secondi. Ma l’altra grande questione è la sicurezza energetica. La ridotta capacità produttiva che deriva dal controllo dei pozzi da parte di gruppi ribelli rischia di mettere in ginocchio il nostro Paese. Se per il gas dipendiamo dall’est, per il petrolio dipendiamo dal sud e dall’approvvigionamento di greggio dalla Libia. Un quadro come quello attuale in cui entrambe le fonti incerte è di assoluto allarme. Mi stupisco che non sia un tema centrale della campagna elettorale per le elezioni europee. Spero che nel Parlamento cresca l’attenzione per questi temi. Ed è altrettanto allarmante come il dibattito verta solo sulla riduzione dei nostri sistemi di difesa, proprio in un momento in cui i rischi aumentano.

Il Pd chiede l'intervento dell'Onu in Libia - Formiche

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Limes - rivista italiana di geopolitica » I marines a Sigonella con un occhio a Bengasi - Versione stampabile


[h=1]Limes - rivista italiana di geopolitica[/h]

[h=4]LIMES OGGI[/h] [h=2]I marines a Sigonella con un occhio a Bengasi[/h] di Federico Petroni

Gli Stati Uniti distaccano una parte della forza d’intervento rapido per il Mediterraneo nella base in Sicilia. Il motivo? Politica interna: Obama deve alleviare la pressione per i nuovi sviluppi dello scandalo attorno all’attentato in Libia dello scorso settembre.

Dici marines, aggiungi Sigonella, pensi a Bengasi. Lo schieramento nella base siciliana di una parte della forza d’intervento rapido stanziata da appena un mese in Spagna non va letta come preparazione degli Stati Uniti a un nuovo attacco in Libia o come ultima tappa della colonizzazione militare della Sicilia (vedi le polemiche sul Muos di Niscemi).

Questa manovra sullo scacchiere mediterraneo non deve nemmeno essere interpretata unicamente come tentativo di Washington di evitare che in Libia si ripeta una crisi come quella che ha portato, l’11 settembre 2012, alla morte dell’ambasciatore Christopher Stevens.

No, la mossa ha un sapore squisitamente di politica interna. Americana, non nostrana. L’annuncio del trasferimento dei marines (e di qualche unità delle forze speciali) giunge al termine di una settimana difficile per l’amministrazione Obama.

Nei giorni scorsi infatti è riaffiorato uno scheletro che già aveva perseguitato il presidente verso il voto di novembre: quello dell’attentato a Bengasi, per il quale la Casa Bianca era stata accusata di aver lasciato soli i propri uomini durante l’attacco e di non aver fornito tutto il supporto necessario. Tentando poi di minimizzare l’accaduto a scopi elettorali.

A far tornare a galla lo scandalo è stata l’audizione al Congresso del numero due della missione diplomatica in Libia, Gregory Hicks che, sull’orlo delle lacrime, ha testimoniato come quell’infausta notte alle forze speciali fosse stato esplicitamente vietato di recarsi a Bengasi a soccorrere i connazionali sotto attacco.

Per aggiungere sale sulle ferite, la Abc ha pubblicato il litigio via e-mail tra Cia e dipartimento di Stato sul modo in cui presentare l’attentato alla stampa. Nella fattispecie, il dicastero allora guidato da Hillary Clinton ha insistito per eliminare ogni riferimento ai responsabili dell’attentato, che si riteneva appartenessero a una milizia legata ad al-Qa’ida. Mossa poi interpretata dai repubblicani come tentativo di spazzare la polvere sotto il tappeto e non ammettere che i qaidisti erano lungi dall’essere sconfitti, contrariamente a quanto andava affermando il presidente in campagna elettorale.

Proprio in questi giorni, Obama era a caccia di appigli per alleviare la pressione su di sé. L’accerchiamento era così stretto che si è dovuto riesumare un ex del calibro di Robert Gates, fino al 2011 capo del Pentagono, autore di un’inconsueta quanto significativa apparizione in un talk show. “Fossi stato in carica all’epoca dell’attentato, avrei preso le stesse identiche decisioni dell’amministrazione”, s’è speso Gates in difesa di Obama. “Visto il numero di missili terra-aria spariti dagli arsenali di Gheddafi, non avrei approvato l’invio di un aereo, di un singolo aereo, a Bengasi in quelle circostanze. E mandare delle forze speciali sul campo [...] senza conoscere quale sia la minaccia [...] sarebbe stato molto pericoloso”.

Schierare un contingente militare in una base dirimpettaia al calderone libico fornisce un altro assist alla Casa Bianca. Con Roma, l’amministrazione aveva già cercato negli ultimi mesi questo accordo. Tuttavia, lo stallo politico-istituzionale che ha attanagliato il nostro paese per due mesi dopo le elezioni lo ha ritardato non poco. Gli emissari statunitensi si erano scontrati col rifiuto del governo Monti, ormai ridotto a sbrigare solo le pratiche quotidiane, di discutere il tema prima della formazione di un nuovo esecutivo in grado di assumersi la responsabilità di una tale decisione.

Così il Pentagono s’era accontentato di negoziare con la Spagna la dislocazione per almeno un anno nelle sue basi di circa 500 marines, più alcune unità dei Navy Seals, le forze speciali che hanno eliminato Bin Laden. Con l’evidente idea di distaccare una parte di questo contingente, non appena un nuovo e accondiscendente governo si fosse insediato a Roma.

Un’interpretazione geopolitica dello schieramento dei militari a stelle e strisce a Sigonella è tuttavia possibile. Questa mossa costituisce un primo importante ridimensionamento di un progetto che Washington coltivava per il continente africano. Sin da inizio 2012, il Pentagono aveva cominciato a inviare piccoli team di forze speciali nei vari paesi a sud del Mediterraneo, specie in Nordafrica e nella fascia sahelo-sahariana. Con l’obiettivo di creare una rete in grado di mettere le Forze armate regolari nelle condizioni di rispondere in autonomia alle minacce locali. Un simile sforzo era stato tentato anche in Libia, per la quale l’amministrazione aveva chiesto 8 milioni di dollari per addestrare 500 truppe speciali.

L’arrivo dei marines in Sicilia dimostra che, di fronte alla progressiva polverizzazione della Libia in una guerra civile a bassa intensità, la Casa Bianca ritiene di dover mutare l’approccio. Quando non solo il governo ma anche un esercito regolare evapora, l’opzione di affidarsi a piccole squadre di forze speciali si dimostra insufficiente. Ed è richiesta una risposta militare più convenzionale. Di stanza a Sigonella.

Per approfondire: La Libia e il monopolio della forza legittima

CI SEDEMMO DALLA PARTE DEL TORTO VISTO CHE TUTTI GLI ALTRI POSTI ERANO OCCUPATI

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