GIOVEDÌ, 07 OTTOBRE 2004
Pagina 36 - Economia
Dal 2007 il gruppo torinese non produrrà più grandi berline. La sfida sul lusso sarà affidata a Ferrari e Maserati
Fiat, stop alle "ammiraglie"
Il fondo degli insegnanti Usa è il secondo azionista del Lingotto
Ma Fim, Fiom, Uilm e Fismic replicano: "Risposte insufficienti, pronti a mobilitarci"
Demel ai sindacati: "Non chiuderemo impianti, ma ci vuole maggiore flessibilità"
PAOLO GRISERI
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TORINO - Le ammiraglie alzano bandiera bianca. Dal 2007, quando cesserà la produzione degli attuali modelli, Lancia Thesis e Alfa 166 non avranno eredi. Sono le vittime illustri, sul versante dei prodotti, del piano di ristrutturazione annunciato ieri da Herbert Demel nell´incontro con i segretari nazionali dei sindacati dei metalmeccanici. Il gruppo torinese, precisano al Lingotto, continuerà a puntare molte carte sul settore delle auto di lusso ma lascerà a combattere su quel fronte i suoi marchi di maggiore forza e prestigio, Ferrari e Maserati. Lancia e Alfa si fermeranno un gradino più sotto, a quello che i tecnici del settore chiamano il «D», corrispondente all´attuale Lybra. L´erede della Lybra, che dovrebbe essere prodotta a partire dal 2006 a Cassino, sarà più ricca dell´antenata (è prevista anche una versione con motore di 3.000 cc) per compensare in parte la perdita del segmento superiore.
La razionalizzazione della gamma dei prodotti è uno dei punti di forza del piano Demel. Che si basa sul concetto della concorrenza tra stabilimenti sul piano dei costi: «Non intendiamo chiudere nessuna delle undici fabbriche attualmente produttive», ha detto l´ad di Fiat Auto. Ma ognuno dovrà fare a gara con gli altri per rendersi economicamente appetibile. I dati forniti ieri ai sindacalisti vedono perdenti nella competizione Termini Imerese e Mirafiori, le due fabbriche dove un´ora di produzione costa tra 80 e 90 euro. Gli stabilimenti dove invece conviene produrre sono quelli di Melfi e della Sevel di Lanciano, sotto i 50 euro. Così Demel ha proposto ai sindacati uno scambio tra il mantenimento degli attuali insediamenti produttivi e un «maggiore utilizzo degli impianti». Nella logica della riduzione dei costi rientrano altri due tagli confermati ieri: la fine della produzione dei motori ad Arese e Mirafiori e la riduzione della superficie dello stabilimento torinese: «A Mirafiori - ha detto Demel - abbiamo molti capannoni vuoti. Intendiamo vendere quelle aree. Non possiamo continuare a camminare con un piede piccolo in una scarpa troppo grossa».
Il piano ha avuto accoglienze contrastanti. Un segnale di fiducia è venuto dal fondo americano Tiaa-Cref, legato al fondo pensione degli insegnanti statunitensi. Tiaa-Cref, ha comunicato la Consob, è diventato il secondo azionista della Fiat, con il 3,6 per cento del capitale, scavalcando Generali (2,9%) e sotto Ifil, saldamente al comando con il 30,4 per cento. La partecipazione del fondo americano aveva già superato in estate la soglia del 2 per cento, all´indomani della nomina del nuovo ad del Lingotto, Sergio Marchionne.
Molto preoccupati invece i segretari nazionali dei sindacati che, dopo gli annunci di Demel, si riuniranno lunedì a Roma «per decidere le azioni di lotta». Si ipotizzava ieri una giornata di sciopero dei dipendenti del gruppo. Tutti hanno apprezzato «il diverso piglio con cui l´azienda intende affrontare i problemi», come ha detto il segretario del Fismic, Roberto Di Maulo. E Tonino Regazzi della Uilm ha aggiunto: «Demel ha lanciato una sfida che siamo pronti a raccogliere». Ma gli apprezzamenti si limitano per il momento al clima delle relazioni sindacali. Sul merito «il piano presentato è insufficiente», ha detto Gianni Rinaldini della Fiom che ha criticato «le riduzioni nella gamma alta e nella produzione dei motori». «Per dare un giudizio definitivo - ha aggiunto Giorgio Carpioli della Fim - è necessario un incontro con Marchionne sulle strategie finanziarie che fisseremo nelle prossime settimane». Tutti i sindacati si sono detti disponibili «in presenza di un piano certo» a «discutere l´attuale organizzazione del lavoro». «Anche se il modello di riferimento - ha concluso Rinaldini - non può essere quello degli stabilimenti turchi».