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Inizio del crollo economico?


Guest DESMO16

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Gli amministratori delegati dedicano più attenzione ai ministri che ai loro capi del personale

48 ore di lavoro alla settimana, il 14% alla scrivania. Il resto? Riunioni, viaggi e telefonate

Uomini e senza laurea dirigenti made in Italy

di GABRIELE ROMAGNOLI

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È tutta colpa dei manager? O, come Jessica Rabbit, sono stati "disegnati così"? Se le squadre-azienda italiane non giocano più nella Champions League dell'economia il problema è in panchina?

Tutta colpa dei manager? O, come Jessica Rabbit, sono stati "disegnati così"? Se le squadre-azienda italiane non giocano più nella Champions League dell'economia il problema è in panchina? O in quelli che scelgono chi metterci, come incentivarlo e perché, eventualmente, licenziarlo? E, infine, che cosa fa veramente un manager?

Nel momento in cui la parola più pronunciata è crisi e le imprese palleggiano la responsabilità nel vecchio gioco dello scaricabarile, sui manager si addossano colpe: miopi nelle strategie, accecati dal miraggio dei bonus, hanno guidato il pulmino aziendale andando a sbattere contro il muro della recessione. Ma in Italia il declino è cominciato molto prima, esattamente dal 1995. E la copertina dell'Economist che ci definiva "Sick Man of Europe" è del maggio 2005. Che questo morbo abbia a che fare con i manager, con i criteri che ne determinano la scelta, con il modo in cui lavorano? Due studi aiutano a farsi un'idea. Provengono entrambi dalla London School of Economics, ma sono opera di quattro ricercatori italiani: Oriana Bandiera, Luigi Guiso, Andrea Prat e Raffaella Sadun. Il primo si intitola "Italian Managers: fidelity or performance". Completato nel 2008, sarà discusso al Festival dell'economia di Trento. Spiega, in soldoni, come un capitano d'industria italiano nomina i suoi ufficiali.

Il secondo ("What does a Ceo do?") è ancora in fase preliminare e risponde all'interrogativo: ma poi, che cosa diavolo fa, esattamente, un amministratore delegato? Come spesso, la realtà è un'intuizione, ma tocca alla scienza suffragarla con prove. Per farlo i 4 studiosi hanno valutato la carriera di 600 manager, di cui 121 amministratori delegati. Sono entrati in possesso delle loro agende ricostruendo gli impegni di una settimana lavorativa. Hanno verificato all'Inps le loro retribuzioni (al netto dei bonus e della soave prassi delle aziende italiche di pagarne una parte in nero). Il risultato? Prevedibilmente sconfortante. Ineludibilmente di cattivo auspicio. Vediamo in dettaglio.

Come viene scelto un manager in Italia? Una minoranza di imprese (quelle non familistiche e a vocazione multinazionale) si basa sulle performance, incarica cacciatori di teste, mette annunci, fa riferimento a precedenti contatti d'affari. Ma la maggioranza decide altrimenti. Come? Sulla base delle relazioni personali. Al limite di quelle familiari. Tradotto: non si sceglie qualcuno che ha dimostrato di valere, ma uno con cui si è fatto il liceo, o il compagno di merende del cugino. I dirigenti delle aziende di Silvio Berlusconi non sono forse stati in maggioranza suoi compagni di scuola? E non è poi venuta la volta dei compagni di Pier Silvio (cooptato per eredità)? Ci sono sistemi peggiori? Forse sì: il presidente Moratti affidò la panchina dell'Inter a Orrico dopo averlo sottoposto a prova grafologica e Gabriella Spada, moglie del fondatore della Giacomelli Sport, non si fidava di nessuno che non fosse stato approvato dalla cartomante (poi Orrico fu esonerato e la Giacomelli ha fatto crac).

Proviamo a confrontare i manager italiani usciti da questa ricerca con quelli di un sondaggio effettuato in 4mila aziende di 12 Paesi esteri. Per età sono simili. Per genere l'Italia si rivela più misogina (benché sia risalita negli ultimi vent'anni e abbia una donna alla guida di Confindustria). Più che altrove, da noi la scelta è domestica (solo il 4% dei manager è straniero). Se il paragone regge: 1 sola squadra italiana delle 4 presenti in Champions League aveva un allenatore straniero. Risultato: tutte fuori. Tre squadre inglesi su 4 si affidavano a un tecnico venuto da fuori. Esito: tutte in corsa. Ma dove, quasi letteralmente, casca l'asino è nel livello di studi del manager italiano. La metà non possiede laurea. E quando ce l'ha, è lontana dalla lode.

Ora, se deponiamo un attimo la ricerca e proviamo ad incrociare questi dati con l'esperienza recente per cercare il modello perfetto, l'impresa italiana che riassume tutte queste condizioni, struttura familistica, management maschile, scelto nel cortile di casa e con basso livello culturale, che risultato otteniamo? Parmalat. Otteniamo il più grosso crac made in Italy degli ultimi anni. Otteniamo un'azienda gestita da Calisto Tanzi come un padre padrone. Dove entravano figli e nipoti con cariche non commisurate alle capacità. Dove a parte due donne (ovviamente una figlia e una nipote) tutti i dirigenti erano maschi. Dove le carte d'identità recavano inevitabilmente la scritta "Nato a: Collecchio (Parma)". Dove tutti erano, con orgoglio, ragionieri, Tanzi incluso. Dunque, questo modello porta allo sfascio? Non necessariamente. È tuttavia provato che l'altro, quello che valuta le performance, è più fruttuoso per l'azienda.

Che i manager scelti per il curriculum e i risultati lavorano di più, sono più soddisfatti, spingono l'impresa più avanti, avendo più propensione al rischio. Il problema è che la maggioranza non solo viene assunta per affidabilità, ma fa anche carriera per le stesse ragioni e viene licenziata non quando manca gli obiettivi, ma se non si sdraia sulla linea tracciata dal padre-padrone.

Questo determina il larga misura l'esito del secondo studio: che cosa fa un manager? Dei 121 a cui è stata "rubata l'agenda" questo sappiamo: lavorano in media 48 ore alla settimana. Ogni giorno svolgono 7 diversi tipi di attività. Quali? Metà del tempo lo spendono in "riunioni". Il 14% soli alla scrivania. Il 12% in viaggi. Nel restante 25% telefonano, partecipano a videoconferenze, pranzi di lavoro, eventi speciali. Chi incontrano? Questa può apparire una sorpresa. Principalmente consulenti esterni all'azienda. Piuttosto che i capi divisione interni vedono persone che ruotano in altre orbite. A seguire: clienti, investitori, banche, politici, fornitori. Come si spiega? Perché un amministratore delegato passa più tempo con un faccendiere, un ministro, un banchiere che con il direttore marketing o il capo del personale della propria azienda?

Mettiamola così: tu sei un manager rampante, pensi che ti sarà più utile per fare carriera il risultato ottenuto nell'attuale incarico o la conoscenza non superficiale di Gianni Letta? È una conclusione ancora provvisoria, non essendo lo studio terminato, ma l'impressione è che le due ricerche siano strettamente correlate. In un universo in cui la determinazione delle posizioni non è legata ai titoli né ai risultati, ma ai rapporti, i manager dedicano più tempo a tessere questi che a far funzionare le aziende di cui hanno la responsabilità. Ecco che il circolo vizioso si chiude: in mezzo restano aziende che non brillano più da oltre un decennio, lavoratori che ne pagano le conseguenze, un marchio, "Made in Italy", appannato. Segnali di un'inversione di tendenza? Nessuno. Hai una laurea con il massimo dei voti, hai un carattere indipendente, non sei propenso alle relazioni pubbliche, tendi a dire quel che pensi e contrastare anche chi ti paga se pensi che sia per il bene comune? Sei magari perfino donna? Non pensare di fare il manager in Italia. Al limite vai all'estero, alla London School of Economics a fare un'impietosa ricerca sui manager.

Uomini e senza laurea dirigenti made in Italy - esteri - Repubblica.it

Cita

7:32 : Segni i punti coglionazzo !

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I più attivi nella discussione

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Basta passare in Fiat per farsene un'idea......:roll:

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Some critics have complained that the 4C lacks luxury. To me, complaining about lack of luxury in a sports car is akin to complaining that a supermodel lacks a mustache.

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Ogni però è colpa dell'azienda stessa che organizza cazzate :roll:

Questo mese mio papà l'ho visto si e no un paio di ore in tutto...prima la clausura a Berlino,poi la clausura a Livorno,poi la clausura a Verona e in tutto ciò lui deve lavorare di notte perchè di giorno ha quste minchiate di "riunioni aggregative" che non servono ad una mazza se non a socializzare meglio con i colleghi :pz

Non avrò mai i massimi dei voti alla laurea :D ciò vuol dire che posso essere manager in Italia :lol: ?

 

花は桜木人は武士

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Non avrò mai i massimi dei voti alla laurea :D ciò vuol dire che posso essere manager in Italia :lol: ?

No, sei troppo intelligente.

La carriera in Italia non si fa per merito, ma per il motto latino "Promoveatur ut amoveatur"

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Some critics have complained that the 4C lacks luxury. To me, complaining about lack of luxury in a sports car is akin to complaining that a supermodel lacks a mustache.

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Oddio non voglio fare il solito fascio-nazionalista ma di questi tempi c'è ancora da osannare gli inglesi e l'economia anglosassone :roll: ? Wagoner è li per meriti :D ? e i furbomi delle Enron e di World.com? erano tanto uguali ai nostri Callisti ;)

Tutto il mondo è paese ;) noi avremo le raccomandazioni, altrove c'è una sete di potere che è superiore persino a certi politici nostrani :D

Certo è che quando senti dire da un manager Telecom che a Waterloo Napoleone ha compiuto il suo capolavoro ribalando a suo favore la guerra :roll: le palline girano

 

花は桜木人は武士

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Se gli italiani pensano che all'estero i managers non sono degli inetti e che si siano meritevolmente guadagnati la loro posizione per giusti meriti, allora vivono sulla luna.

E' anche chiaro che non hanno mai lavorato all'estero, soprattutto in Gran Bretagna dove i managers e capiufficio sono notoriamente famigerati per la loro completa ignoranza e inettitudine, resa famosa dalla commedia televisiva The Office.

E' proprio di oggi la notizia della ennesima banca inglese che e' andata in fallimento:

BBC NEWS | Scotland | Scramble to save building society

I lecchini, i ruffiani e l'inettitudine si trovano in tutto il mondo, come si puo' constatare dal caos in cui ci troviamo adesso, e gli italiani dovrebbero imparare una volta per tutte che davvero tutto il mondo e' paese.

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AVANZANO LE SCELTE DEI SINGOLI STATI, MA C'È UN CONTENUTO DI NAZIONALISMO ECONOMICO»

«Il G20 fallirà, nessuna soluzione globale»

Il sociologo Ralf Dahrendorf: «Ridurremo i nostri standard

di vita del 20%, torneremo agli anni Cinquanta e Sessanta»

Dal nostro inviato Danilo Taino

Ralf Dahrendorf (Grazia Neri)COLONIA - Ralf Dahrendorf è sicuro che il vertice del G20 di Londra, il prossimo 2 aprile, fallirà. «Fallirà, non raggiungerà gli obiettivi che gli erano stati dati originariamente, cioè essere il momento decisivo per uscire dalla crisi e ridisegnare l'ordine economico internazionale - sostiene -. Per molti motivi, ma soprattutto perché quello che stiamo vivendo non è un Bretton Woods moment». Il sociologo forse più autorevole d'Europa - ma anche politico, politologo, filosofo, educatore e membro della Camera dei Lord britannica nonostante sia di origine tedesca - non ha praticamente parlato in pubblico della crisi mondiale. Lo fa con questa intervista.

Lord Dahrendorf, perché non siamo in un «momento Bretton Woods»?

«Quando Keynes entrò alla conferenza di Bretton Woods, nel 1944, credeva di andare a salvare la sterlina. In breve tempo si accorse che era morta, che il ruolo dominante era passato al dollaro e agli Stati Uniti. Ora, la situazione è diversa, questa è una fase confusa, dove non ci sono vincitori. E non sono nemmeno certo che l'America voglia caricarsi sulle spalle da sola il peso dell'uscita dalla crisi. Ma non è l'unica ragione per cui il vertice non sarà un successo».

Quali altre ragioni?

«Io stimo Barack Obama e Gordon Brown, ma in questo caso sbagliano. Ritengono che questa sia una crisi globale, mentre la possiamo definire mondiale ma non globale. Globale è il cambiamento climatico, che non può avere risposte nazionali. Ma la crisi riguarda sì tutti, cioè è mondiale, ma ha risposte nazionali, e queste contengono un nazionalismo economico. Io li vedo come globalisti, al contrario di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy che sono mondialisti. Questa è l'origine del conflitto che sta alla radice del G20 del 2 aprile: è sbagliato credere che ci siano soluzioni globali».

Cosa intende per fallimento del vertice?

«Non ci sarà accordo su un pacchetto di stimolo "globale". Ci saranno dichiarazioni generiche sulle nuove regole da scrivere. Forse verrà un po' rafforzato il Fondo monetario internazionale. E si identificheranno alcuni capri espiatori, in particolare i paradisi fiscali. Niente di davvero importante, tanto che tutti sono impegnati ad abbassare le aspettative, il padrone di casa Brown in testa, dopo che le avevano alzate moltissimo».

Quali sono le conseguenze della crisi, nel lungo periodo?

«Alla fine tutti avremo ridotto gli standard di vita di almeno un 20%. Torneremo circa ai livelli precedenti a quelli di Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Per alcuni aspetti, a un modo di vivere che somiglierà un po' agli anni Cinquanta e Sessanta, con molta più tecnologia ma senza l'ottimismo di quei decenni».

Anche quando inizierà la ripresa?

«La ripresa sarà lunga e lenta. E non basterà a servire gli interessi sul debito che nel frattempo gli Stati stanno accumulando. Ragione per cui sarà un periodo di tasse alte e alta inflazione. Niente di bello. Alcuni economisti parlano di "inflazione controllata", sostengono cioè che qualche anno di inflazione tra il 6 e il 10% basterà a ridimensionare i debiti pubblici. Il problema è che un'inflazione del genere sarà pagata soprattutto dai poveri e dai pensionati».

Visione nera.

«Se vogliamo metterle un po' di belletto, possiamo forse prevedere che la crisi porterà un cambio di attitudine, con più attenzione all'economia reale e un distacco dalla cultura del debito e dal capitalismo del debito. Il ricorso alle carte di credito sarà mitigato, sarà forse un clima più piacevole».

Cultura del debito?

«Sì, la cultura diffusa, ma molto diffusa, per la quale mettevi lì cinquanta euro e ti pareva normale che ti dessero un'automobile o una casa. Può non piacere a molti, che preferiscono dare ogni responsabilità ai banchieri e ai paradisi fiscali, ma credo che questa sia la ragione principale della crisi».

Prima responsabile non è dunque la deregulation degli anni di Reagan e Thatcher?

«Ci sono alcuni aspetti di quella deregulation che entrano tra le ragioni della crisi. Ma non andrei troppo avanti su questa strada. Perché alla base della crisi c'è soprattutto la cultura del debito e la bolla conseguente. Un mio conoscente mi raccontava l'altro giorno che ha uno chalet da vendere a Chamonix e che, all'improvviso, si è accorto che a nessuno al mondo serve uno chalet a Chamonix. Non più, perché il mondo sta riducendo di quel 20% le sue esigenze. Ma questo non c'entra niente con la signora Thatcher, la quale, di base vittoriana, aveva anzi orrore del debito».

Pericoli di violenza a causa della crisi?

«Non vedo un ritorno del terrorismo domestico. Ma c'è una grande rabbia diffusa, la voglia di trovare colpevoli. Per ora non ha sbocchi politici, è individuale, come abbiamo visto negli attacchi alle case di banchieri, o si incanala in manifestazioni di massa tradizionali come quelle delle tifoserie del calcio».

La democrazia potrebbe correre dei rischi?

«La democrazia direttamente no, anche se ci saranno spostamenti politici. Diverso è il discorso per la società aperta, perché la crisi non favorisce le libertà. Le scelte dei governi di nazionalizzare banche e forse anche certe industrie riducono le libertà. Non saranno tempi belli».

C'è chi dice che il vero potere non starà nel G20 ma nel G2, cioè Washington più Pechino.

«Forse, anche se non vedo fino in fondo come Stati Uniti e Cina, che non si piacciono, possano andare davvero d'accordo. Credo però che quasi certamente l'Europa non ci sarà alla guida del mondo: i leader europei vanno per strade diverse e soprattutto chiedono a Bruxelles di ridurre, allentare il mercato unico».

mah, fin troppo tranciante e catastrofista, però nel mio piccolo vedo che oggi la gente è abituata TROPPO bene in generale....i

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mah, fin troppo tranciante e catastrofista, però nel mio piccolo vedo che oggi la gente è abituata TROPPO bene in generale....i

Quoto.

E mi sembrano inutili e utopistici questi vertici. Non si può trovare una ricetta comune.

Un pò perchè ognuno ha i suoi particolari problemi (es: Italia, costo del lavoro troppo alto che si traduce in salari più bassi, che ci siamo europeizzati solo nei prezzi...).

E poi perchè ci sarà qualcuno che ci guadagna da un accordo complessivo e qualcuno che ci perde.

E, ovviamente, nessuno vuole offire il culo dei propri cittadini per salvare quelli di qualcun'altro.

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Some critics have complained that the 4C lacks luxury. To me, complaining about lack of luxury in a sports car is akin to complaining that a supermodel lacks a mustache.

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non credo al ritorno degli anni '50 e '60 italiani perche' non si dimentichi che l'Italia di quel periodo era nel suo complesso un paese poverissimo, con zone avanzate ( poche ) e zone a livello di Albania ( tantissime )

Archepensevoli spanciasentire Socing.

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