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Scusate, dov'è la discussione sulla fotografia digitale? Intanto metto qua, ma credo vada spostato. Grazie

Fotografia digitale: volevo condividere quest'articolo, del quale riporto introduzione e link al blog. Si può, vero?

[h=1]FOTOCRAZIA[/h][h=2]EVOLUZIONI E RIVOLUZIONI NEL FUTURO, NEL PRESENTE E NEL PASSATO DEL FOTOGRAFICO[/h]

smargiassi-michele.jpgdi Michele Smargiassi

10

APR

2012

[h=1]L’entropia delle immagini[/h]

Pubblico qui il testo del mio intervento introduttivo alla tavola rotonda su “La condivisione delle fotografie ai tempi dei social network”, all’interno del secondo convegno sullo stato della fotografia in Italia tenutosi alla Fondazione Forma di Milano dal 23 al 25 marzo 2012. I podcast audio delle tavole rotonde sono già disponibili qui, mentre gli atti dell’intero convegno saranno presto disponibili in forma di e-book a cura di Forma e Contrasto editore.

BeviFoto.jpgDevo fare un’ammissione che mi costa qualcosa: la rivoluzione digitale in fotografia esiste davvero.

Mi costa perché in quel che da anni, nel mio piccolo, vado dicendo e scrivendo, ho sempre sostenuto che fra la fotografia analogica e quella numerica non c’è stato un cambio radicale di paradigma culturale, di “regime scopico” come dicono gli intellettuali, e da tempo cerco di smontare le interpretazioni “discontinuiste”, soprattutto quelle che vorrebbero dimostrare che, avendo sostituito i granulini coi numerini, la fotografia non è più capace di aiutarci a comprendere la realtà.

Ma fatta l’ammissione, la correggo per metà. Il nome vero e completo di questa rivoluzione dovrebbe essere un altro: “rivoluzionedella condivisione e della disseminazione delle fotografie in Rete”.

La tecnologia che sta alla base delle nuove modalità di captazione e di conservazione delle immagini, la possibilità di tradurle in una stringa numerica capace di viaggiare sulle autostrade telematiche, è solo la condizione tecnica necessaria ma non sufficiente di quel che sta accadendo alla fotografia e ne sta cambiando velocemente e profondamente la funzione nella società, nelle relazioni umane, nei meccanismi economici e culturali.

Un cambiamento radicale che non è attribuibile alla tecnologia numerica più di quanto la bomba atomica non sia intestabile alla matematica. Senza matematica certamente non si poteva progettare la bomba atomica, ma nessuno storico sosterrebbe che sul cielo di Hiroshima sono esplosi logaritmi e radici quadrate.

BeviFoto2.jpgQuel che sta esplodendo nel cielo della fotografia è qualcosa che dipende essenzialmente dalla diffusione, disseminazione e condivisione immediata e ubiquitaria delle fotografie pubbliche e private resa possibile da Internet. Se qualcuno avesse inventato la fotografia digitale ma nessuno avesse inventato Internet, non avremmo proprio nessuna rivoluzione in corso.

La fotografia è un sistema di produzione di segni, unico per le sue qualità nella storia dell’umanità; esiste ed ha senso solo in un sistema di relazioni e di scambi fra uomini. Robinson Crusoe non ha nessun interesse a fotografare. Quando il sistema di scambi e relazioni cambia, allora anche la fotografia diventa un’altra cosa, ed è quello che sta accadendo.

Il primo è più evidente cambiamento sta nelle dimensioni della produzione e della condivisione di fotografie. Le cifre sono impressionanti. Le prime foto furono ammesse su Facebook nel 2005, erano già 5 miliardi l’anno dopo, erano 100 miliardi nel 2011, 170 all’ultima rilevazione che ho potuto consultare, e che sicuramente è già ampiamente superata.

Del resto, sono in circolazione nel mondo 2,5 miliardi di fotocellulari, e se ciascuno di essi prende 150 foto all’anno (ma mia figlia è in grado di scattarne il doppio nel corso di una sola sera di festa con gli amici) fanno in totale più di un miliardo al giorno. La maggioranza delle quali è destinata a essere riversata in qualche modo in Rete.

Ma i numeri non dicono tutto. Anche in era analogica in fondo si producevano miliardi di fotografie, e da mezzo secolo almeno si parla legittimamente di “fotografia di massa”. Era effettivamente di massa, la fotografia, perché milioni di persone nel mondo facevano fotografie. Ma se la pratica era di massa, i suoiprodotti non lo erano, giacché la maggioranza delle foto esisteva in una sola copia che veniva vista, prima di scomparire in qualche cassetto e di smarrire anche il negativo, da poche persone, poche decine se non poche unità.

BeviFoto3.jpgSolo ora anche le singole fotografie sono di massa. Almeno in potenza. Ora ogni singola immagine riversata nei social network della Rete può essere potenzialmente vista da milioni di persone. Che questo in realtà non accada per tutte non vuol dire molto, anche perché non siamo in grado di sapere, come utenti normali dei social network, quante persone davvero vedranno la nostra foto, e quale.

Ma anche qui alcuni piccoli conteggi chiariscono la novità della condizione delle fotografie una volta immesse nel circuito della condivisione elettronica: se ogni utente di Facebook, come dicono le statistiche dei gestori, ha una media di 345 amici e ogni amico mette sul suo profilo una media di 282 fotografie, ciascuno di noi ha accesso immediato a oltre 97 mila foto, senza fare altro sfozzo che un clic dimouse. Retweet, rilanci, ricondivisioni, catene di passaggi fanno il resto, e sono in grado di portare le immagini che credevo di voler condividere solo con pochi amici a distanze per me impensabili, di sotto gli occhi di persone che non conosco e che non immagino neppure. Del resto, che anche la politica si sia accorta (vedi le foto di incontri politici riservati recentemente condivise via Twitter da Pierferdinando Casini e da un funzionario Cgil) di quanto sia facile avviare il meccanismo di diffusione virale, la dice lunga.

La vera domanda che dobbiamo farci a questo punto, però, non riguarda più la meraviglia per queste dimensioni colossali e per la velocità della condivisione. Riguarda gli effetti quel che queste condizioni producono sullo statuto della fotografia come oggetto sociale. Di chi sono questi miliardi di fotografie? A chi appartengono, a chi servono, a cosa servono?

Pensare che appartengano solo a chi le ha scattate è un’ingenuità. In qualche caso non appartengono più a loro neppure legalmente, ma al social network, anche se quasi nessuno lo sa. Ma gli stessi fotografanti sembrano rinunciare in partenza a rivendicare questa loro titolarità. Le fotografie versate a centinaia per volta nei siti delle comunità più generaliste spesso vi finiscono direttamente dal cellulare, senza lasciare un deposito in qualche memoria locale (pc, cd, hard disk), e vengono poi cancellate anche dalla memoria del dipsositivo di origine. Anzi, la pratica abituale è ormai quella di riversare tutto in Rete senza neppure selezionare, per poi guardare la prima volta le proprie immagini direttamente sul proprio profilo online, cioè quando sono già state irrevocabilmente proiettate “nella nuvola”. Del resto alcuni social network di ultimissima generazione, primo fra tutti Instagram, appenaacquisito a colpi di milioni di dollari da Facebook, si basano proprio sul principio del flusso diretto dal cellulare alla Rete.

BeviFoto4.jpgCerto, i social network non sono tutti uguali. Rispetto al “grado zero” della condivisione, rappresentato da Facebook, alcune comunità come Flickr si basano su un interesse più maturo verso la fotografia come strumento espressivo, e quindi attribuiscono più peso e valore alla singola immagine e al concetto di autore. Ma il meccanismo della condivisione e della disseminazione in assenza di relazione personale vale anche per loro.

Ma se le immagini vegnono disseminate senza relazione, allora il vero potere sulle immagini, oggi, non sta più in chi le conserva come un deposito, ma in chi è in grado di mostrarle. Forse è proprio nei meccanismi di condivisione delle immagini che trova la sua verità il passaggio epocale descritto da Jeremy Rifkin, dall’era del possesso all’era dell’accesso.

Quando diventa gigantesco lo scarto fra centinaia di miliardi di fotografie potenzialmente visibili ad ogni utente connesso a Internet e la possibilità concreta di questo utente di trovare le immagini che preferirebbe vedere, allora è evidente che il potere sulle immagini non è più in mano a chi le possiede, ma a chi ne governa il reperimento e l’accesso. Per questo motivo il modello “proprietario” immaginato da Bill Gates (monopolio tramite la tesaurizzazione) negli anni Novanta con Corbis è stato surclassato dal modello “gestionario” di Google (monopolio tramite la gestione).

Per portare il ragionamento all’estremo, mi sento di affermare che la vera titolarità dei miliardi di fotografie condivise appartiene ormai sostanzialmente all’ “utilizzatore finale”, al quale vengono messe a disposizione dai canali di condivisione; le fotografie oggi appartengono veramente solo a chi le può vedere, scaricare, rielaborare, senza alcuna efficace restrizione. È questa dimensione che sfugge a chi continua a pensare che le regole del diritto d’autore, le restrizioni del copyright pensate per tutto un altro mondo di scambi, possano ancora essere operative nella dimensione del nuovo sharing. A dispetto di qualsiasi regola o legge vigente, le immagini condivise non sono solo crowd-produced ma soprattuttocrowd-owned.

BeviFoto5.jpgAllo stesso modo dobbiamo smettere di immaginare i repertori di immagini disponibili in Rete come una versione ipertrofica del modello del museo o dell’archivio tradizionali. Museo e archivio sono forme di deposito razionali e selettive, governate da gatekeeper consapevoli, che esercitano sul materiale loro affidato un potente lavoro di scelta: si sa che il mestiere vero dell’archivista è decidere cosa scartare (sempre molto di più di quel che si sceglie di conservare).

I repertori in Rete sono tutt’altro. Sono serbatoi vulcanici privi di filtro da cui può eruttare un magma in grado di prendere ogni possibile forma e direzione, anche spontaneamente. L’esperimento condotto dal Cifa di Bibbiena con la mostra The Family of Flickr lo prova: applicando un celebre schema fotografico dell’era analogica, quello su cui fu costruita la mostra del secolo The Family of Man, al grande serbatoio di Flickr si sono ottenuti risultati opposti,semplicemente cambiando modalità di accesso. Quando la scelta è stata rigorosamente condotta “curatorialmente”, ovvero cercando le foto una per una con in mente criteri e modelli ben chiari, ne è uscita una riedizione aggiornata di TFoM, leggibile e coerente; quando invece ci si è affidati ai meccanismi automatici di ricerca di Flickr, buttandovi dentro come parole chiave i titoli delle sezioni della mostra di Steichen (nascita, amore, famiglia, lavoro…) e prendendo i primi cento risultati che uscivano, si è ottenuto un risultato completamente anarchico e caotico che è lo specchio fedele della condizione “selvaggia” della fotografia in Rete.

Di fronte a tutto questo, è evidente che continuare a pensare alla singola fotografia come a un oggetto semantico autonomo, compiuto in sé, dotato di un senso individuale, è un errore che rischia di non farci più capire nulla di quel che sono le fotografie oggi. La perdita di peso e spessore di senso della singola immagine, la migrazione da deposito di memoria a flusso continuo ed effimero di proiezioni del sé, da opera a performance, da contenuto a veicolo, la rinuncia alla selezione all’origine, la riduzione del tempo di visione, la fungibilità, la ri-mediabilità, l’intercambiabilità quasi assoluta di ogni immagine con infinite altre: ecco l’esperienza che facciamo ogni giorno delle fotografie che produciamo e scambiamo in Rete.

BeviFoto6.jpgMa se queste sono per noi le fotografie che riempiono gran parte della nostra vita, è difficile pensare che lo stesso atteggiamento non si trasferisca anche alle fotografie che consumiamo come spettatori passivi, alle fotografie più “pesanti” e intenzionate che che ci vengono sottoposte da soggetti pesanti, dai media, dalle istituzioni, dai poteri. Cioè le fotografie sulle quali continuiamo nonostante tutto a basare i nostri giudizi e a formarci le nostre opinioni e a prendere le nostre decisioni sul mondo, sulle persone, sulla politica, sulla vita.

Costruire le nostre visioni del mondo su fotografie leggere, impermanenti, sottili, prive di contesto, ma alla cui “veridicitrà”, con schiozofrenica disponibilità, continuiamo a credere, è un rischio reale, molto forte, per la convivenza, per la cultura, vorrei dire per la democrazia.

Come tutte le vere rivoluzioni tecniche, queola della condivisione è anche una rivoluzione nei rapporti sociali. Come tutte, anche questa è assieme opportunità, sfida e rischio. Vedo le opportunità, mi appassiona la sfida ma sottolineo i rischi perché preferisco la cautela critica alla tecno-euforia. Quel che è certo è che siamo a un cambio di paradigma paragonabile a quello descritto da McLuhan cinquant’nni fa esatti nella sua Galassia Gutenberg (che vi consiglio di rileggere: vi troverete alcune osservazioni profetiche sulle cose che stiamo dicendo).

Credo che sia davvero il caso di parlare di un ecosistema delle immagini in mutazione velocissima, che come tutti gli ecosistemi si espande fino a un punto critico oltre il quale rischia di implodere, se non ci sono regolatori. Ma quali saranno i regolatori nell’ecosistema dell’immagine? Come fronteggiamo i rieschi, non inevitabili ma reali, dell’entropia del vedere?

L’entropia delle immagini – Fotocrazia - Blog - Repubblica.it

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